Testimoni spiritualità
Beato Charles de Foucauld
Charles de Foucauld nasce il 15 settembre 1858 a Strasburgo (Francia) da una famiglia aristocratica. A diciotto anni viene ammesso all’Accademia Militare; in questo periodo si allontana dalla fede e vive in modo sregolato. Nel 1881 abbandona l’esercito e parte alla scoperta del Marocco, paese allora chiuso e inesplorato: rimane affascinato, ma anche messo in discussione, dal sentimento religioso di quel popolo. Tornato in Francia, Charles prega: “Mio Dio, se esisti fa che ti conosca” e, nell’ottobre del 1886 conosce don Huvelin che sarà il suo padre spirituale. Fin dal momento della sua conversione, si sente chiamato alla vita religiosa: dopo un periodo di ricerca in Terra Santa, decide d’imitare la vita di Nazaret di Nostro Signore Gesù. Nel 1890 sceglie la Trappa di Nostra Signora delle Nevi, in Francia, ma dopo qualche mese chiede di essere inviato alla Trappa di Akbès, in Siria, perché essa è molto più povera; tuttavia scrive: “Non è tutta la povertà che vorrei, non è l’abiezione che avevo sognato”, e si chiede se non fosse il caso di: “dare inizio a una piccola Congregazione con lo scopo di condurre la stessa vita di Nostro Signore, vivendo unicamente con il lavoro delle mani, senza accettare nessun dono, non possedendo niente, privandosi del più possibile, aggiungendo a questo lavoro molte preghiere”.
Nel 1897 i superiori e don Huvelin gli concedono di attuare la sua vocazione particolare e si imbarca per la Terra Santa. Vestito come un povero, viene accettato come domestico dalle Clarisse: qui, matura poco alla volta la sua vocazione sacerdotale: “Il sacerdote imita più perfettamente Nostro Signore, che ogni giorno offriva se stesso. Io devo praticare l’umiltà come l’ha praticata lui, e perciò praticarla nel sacerdozio”.
Nel 1900 parte per la Francia preparandosi all’ordinazione alla Trappa di Nostra Signora delle Nevi soggiornandovi per quasi un anno:”I miei ritiri per il diaconato e per il sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazaret che mi sembrava essere la mia vocazione, dovevo condurla non nella Terra Santa tanto amata, ma fra le anime più malate, le pecore più abbandonate. Questo divino banchetto di cui io diventavo il ministro, dovevo presentarlo non ai congiunti, non ai vicini ricchi, ma agli zoppi, ai ciechi, ai poveri, vale a dire alle anime cui mancano sacerdoti”. Nel 1901 Charles riceve l’autorizzazione di vivere nel Sahara; in ottobre arriva a Beni-Abbès e inizia a costruire il suo piccolo monastero pensando di essere destinato ad una vita di adorazione e per estendere la presenza eucaristica coltiva il progetto di una nuova congregazione. Ma nel 1902 scrive: “Io mi vedo con stupore passare dalla vita contemplativa alla vita del santo ministero. Vi sono condotto mio malgrado dal bisogno delle anime. Io voglio abituare tutti gli abitanti cristiani, musulmani, ebrei e idolatri a considerarmi come loro fratello, il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa “Fraternità”, e ciò mi è dolce”. Dal 1903 si mostra preoccupato dell’evangelizzazione dei Tuareg, nel 1904 visita la terra dell’Hoggar e si stabilisce a Tamanrasset. Impara la lingua “tamahaq”, la studia dedicandosi per anni a comporne un “lessico”, traduce in questa lingua i santi Vangeli, si intrattiene lungamente con coloro che gli fanno visita, diventa consigliere del capo Tuareg Musa Ag Amastan: “Per fare del bene alle anime, bisogna poter parlare ad esse, e per parlare del Buon Dio, e delle cose interiori, bisogna saper bene una lingua. Sono 1900 anni che questa terra, queste anime, aspettano il Vangelo”, scriverà. Ed ancora: “Il mio apostolato deve essere l’apostolato della bontà. Vedendomi si deve dire: “Poiché quest’uomo è così buono, la sua religione deve essere buona”. Se si chiede perché io sono mite e buono, devo dire: “Perché sono il servo di uno assai più buono di me. Se sapeste com’è buono il mio Padrone Gesù””.
Gli anni passano ed egli continua a preparare la fondazione dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle “supplicando, immolandosi, morendo, santificandosi, in una parola amando”; questo progetto prevede:”alcune anime che, a piccoli gruppi, si spandano soprattutto nei paesi infedeli o abbandonati”.
Un taccuino di padre Charles de Foucauld scritto a Tamanrasset, comincia con queste parole: “Vivi come se dovessi morire martire oggi”, e più sotto: “Io desidero, con tutto il cuore, dare la mia vita per te”. La mattina del primo dicembre 1916, giorno della sua morte, scrive: “Il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e per fare il bene alle anime”. Verso le sette di sera, una banda di Tuareg ribelli prendono padre Charles e lo tirano fuori dall’eremitaggio con violenza: sentendo arrivare qualcuno, il ragazzo che lo tiene a bada spara. Charles muore così “violentemente e dolorosamente ucciso”, come aveva desiderato, configurato a Gesù anche nella morte. Charles de Foucauld nasce il 15 settembre 1858 a Strasburgo (Francia) da una famiglia aristocratica. A diciotto anni viene ammesso all’Accademia Militare; in questo periodo si allontana dalla fede e vive in modo sregolato. Nel 1881 abbandona l’esercito e parte alla scoperta del Marocco, paese allora chiuso e inesplorato: rimane affascinato, ma anche messo in discussione, dal sentimento religioso di quel popolo. Tornato in Francia, Charles prega: “Mio Dio, se esisti fa che ti conosca” e, nell’ottobre del 1886 conosce don Huvelin che sarà il suo padre spirituale. Fin dal momento della sua conversione, si sente chiamato alla vita religiosa: dopo un periodo di ricerca in Terra Santa, decide d’imitare la vita di Nazaret di Nostro Signore Gesù. Nel 1890 sceglie la Trappa di Nostra Signora delle Nevi, in Francia, ma dopo qualche mese chiede di essere inviato alla Trappa di Akbès, in Siria, perché essa è molto più povera; tuttavia scrive: “Non è tutta la povertà che vorrei, non è l’abiezione che avevo sognato”, e si chiede se non fosse il caso di: “dare inizio a una piccola Congregazione con lo scopo di condurre la stessa vita di Nostro Signore, vivendo unicamente con il lavoro delle mani, senza accettare nessun dono, non possedendo niente, privandosi del più possibile, aggiungendo a questo lavoro molte preghiere”.
Nel 1897 i superiori e don Huvelin gli concedono di attuare la sua vocazione particolare e si imbarca per la Terra Santa. Vestito come un povero, viene accettato come domestico dalle Clarisse: qui, matura poco alla volta la sua vocazione sacerdotale: “Il sacerdote imita più perfettamente Nostro Signore, che ogni giorno offriva sé stesso. Io devo praticare l’umiltà come l’ha praticata lui, e perciò praticarla nel sacerdozio”.
Nel 1900 parte per la Francia preparandosi all’ordinazione alla Trappa di Nostra Signora delle Nevi soggiornandovi per quasi un anno: “I miei ritiri per il diaconato e per il sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazaret che mi sembrava essere la mia vocazione, dovevo condurla non nella Terra Santa tanto amata, ma fra le anime più malate, le pecore più abbandonate. Questo divino banchetto di cui io diventavo il ministro, dovevo presentarlo non ai congiunti, non ai vicini ricchi, ma agli zoppi, ai ciechi, ai poveri, vale a dire alle anime cui mancano sacerdoti”. Nel 1901 Charles riceve l’autorizzazione di vivere nel Sahara; in ottobre arriva a Beni-Abbès e inizia a costruire il suo piccolo monastero pensando di essere destinato ad una vita di adorazione e per estendere la presenza eucaristica coltiva il progetto di una nuova congregazione. Ma nel 1902 scrive:”Io mi vedo con stupore passare dalla vita contemplativa alla vita del santo ministero. Vi sono condotto mio malgrado dal bisogno delle anime. Io voglio abituare tutti gli abitanti cristiani, musulmani, ebrei e idolatri a considerarmi come loro fratello, il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa “Fraternità”, e ciò mi è dolce”. Dal 1903 si mostra preoccupato dell’evangelizzazione dei Tuareg, nel 1904 visita la terra dell’Hoggar e si stabilisce a Tamanrasset. Impara la lingua “tamahaq”, la studia dedicandosi per anni a comporne un “lessico”, traduce in questa lingua i santi Vangeli, si intrattiene lungamente con coloro che gli fanno visita, diventa consigliere del capo Tuareg Musa Ag Amastan: “Per fare del bene alle anime, bisogna poter parlare ad esse, e per parlare del Buon Dio, e delle cose interiori, bisogna saper bene una lingua. Sono 1900 anni che questa terra, queste anime, aspettano il Vangelo”, scriverà. Ed ancora: “Il mio apostolato deve essere l’apostolato della bontà. Vedendomi si deve dire: “Poiché quest’uomo è così buono, la sua religione deve essere buona”. Se si chiede perché io sono mite e buono, devo dire: “Perché sono il servo di uno assai più buono di me. Se sapeste com’è buono il mio Padrone Gesù””.
Gli anni passano ed egli continua a preparare la fondazione dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle “supplicando, immolandosi, morendo, santificandosi, in una parola amando”; questo progetto prevede:”alcune anime che, a piccoli gruppi, si spandano soprattutto nei paesi infedeli o abbandonati”.
Un taccuino di padre Charles de Foucauld scritto a Tamanrasset, comincia con queste parole: “Vivi come se dovessi morire martire oggi”, e più sotto:”Io desidero, con tutto il cuore, dare la mia vita per te”. La mattina del primo dicembre 1916, giorno della sua morte, scrive:”Il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e per fare il bene alle anime”. Verso le sette di sera, una banda di Tuareg ribelli prendono padre Charles e lo tirano fuori dall’eremitaggio con violenza: sentendo arrivare qualcuno, il ragazzo che lo tiene a bada spara. Charles muore così “violentemente e dolorosamente ucciso”, come aveva desiderato, configurato a Gesù anche nella morte.
Beata Maria Gabriella Sagheddu
“Io non domando al Signore che mi liberi dalla sofferenza, ma che mi dia la forza di soffrire per amor suo tutto ciò che a lui piacerà di mandarmi”. Chi ha scritto queste parole che segneranno la sua breve vita è una giovane sarda di 22 anni, novizia presso il monastero trappista di Nostra Signora di S. Giuseppe in Grottaferrata nel 1936.Maria Sagheddu vi era giunta da Dorgali, dove era nata nel 1914 e dove aveva trascorso una vita molto semplice. Si sente attratta alla vita consacrata; entra nella Trappa di Grottaferrata il 30 settembre 1935.
Grazie anche allo spirito ecumenico della badessa Madre Pia, suor Maria Gabriella scopre la sua vera chiamata: il Signore la vuole tutta per sé e per la causa dell’unità della Chiesa. Chiede alla madre badessa e alla maestra delle novizie il permesso di offrire la sua vita per questo fine:” Sento che il Signore me lo chiede; mi sento spinta anche quando non voglio pensarci… tanto, la mia vita non vale niente, non so far niente… Sono una povera creatura, miserabile e indegna”. Udito anche il consiglio del p. cappellano, il permesso è accordato. Madre Tecla scrive che:”suor Maria Gabriella uscì dal colloquio raggiante di gioia”.
Le pagine trovate ingiallite per l’usura nel suo vangelo personale, corrispondenti al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, testimoniano in modo esplicito la sua quotidiana preghiera con Cristo e in Cristo, per l’unità e ce ne fanno quasi percepire l’ardore intenso. Ma il momento della sua offerta, il luogo e il come ci sono nascosti e rimangono avvolti nel silenzio del mistero divino. Immediato è il segno dell’accettazione dell’offerta: i primi sintomi della malattia si manifestano addirittura in coincidenza con i giorni della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del 1938. È la stessa suor Maria Gabriella a confidare con semplicità alla badessa:”Da quel giorno che mi offersi non sono più stata bene… non ho più passato un giorno senza soffrire”. Tosse e febbre non controllata rivelano una tubercolosi polmonare. Suor Maria Gabriella accetta la situazione, fino a dire serenamente:”Questa malattia è la mia ricchezza, ma non la voglio spartire con nessuno”.
Suor Maria Gabriella scrive parole che rivelano la sua piena conformazione al Crocifisso:”Il Signore mi tiene sulla nuda croce e io non ho altra consolazione che di sapere che soffro per compiere la volontà divina e in spirito di obbedienza… Sono in modo speciale più unita a lui per mezzo della croce… Sento che non arriverò mai a capire abbastanza l’amore che Gesù mi dimostra nell’offrirmi questa croce… Il mio sacrificio è totalmente completo poiché dall’alba fino a notte non faccio che rinnegare in tutto e per tutto la mia volontà”.
Sr. Maria Gabriella si prepara a concludere la sua vita nel suo monastero trascorrendo gli ultimi giorni in una profonda pace. Madre Pia che la assiste nell’ultima notte, tra gli spasimi, le chiede:”Offri tutto per l’Unità, vero?”. Sr. Maria Gabriella risponde semplicemente con un:”SÌ”. Muore dopo il canto del vespro della domenica del Buon Pastore, il 23 aprile 1939, a 25 anni. Viene sepolta a Grottaferrata da dove, nel 1975, verrà traslata nel nuovo monastero trappista di Vitorchiano. Da allora l’umile suora è chiamata Maria Gabriella dell’Unità. È stata proclamata beata da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983.
San Leopoldo Mandic
San Leopoldo nacque il 12 maggio 1866 a Castelnuovo, ridente cittadina all’ingresso delle Bocche di Cattaro (Montenegro); al Battesimo gli fu dato il nome di Giovanni Diodato. A sedici anni entrò nel seminario dei cappuccini veneti a Udine. Il 4 maggio 1885 emise la professione religiosa; il 20 settembre 1890 fu consacrato sacerdote. Terminati gli studi, nel 1894, cominciò ad amministrare il sacramento della Riconciliazione nella basilica del SS. Redentore (Venezia). Fu poi confessore a Bassano del Grappa, a Capodistria, a Thiene e, dal 1909 al 1942, a Padova. Nel 1887 sentì, per la prima volta, la particolare vocazione a lavorare per la riunificazione degli ortodossi con la Chiesa cattolica e, appena ordinato sacerdote chiese di poter svolgere il suo apostolato in Oriente, presso quei popoli. Ma i superiori furono sempre di diverso avviso. Il disegno divino prese forma in lui poco a poco: Dio non voleva che egli si portasse personalmente a predicare agli ortodossi ma doveva solo sacrificarsi per ottenere la grazia del grande evento dell’unità della Chiesa. Padre Leopoldo accettò e si sacrificò. Un giorno disse: ” Tempo fa ebbi l’occasione d’incontrare una santa persona e di comunicarla. Dopo la comunione, essa mi disse:”, “Padre, Gesù mi ha ordinato di dirle che ogni anima che lei assiste qui nella confessione, è il suo Oriente”. Egli comprese come il Signore voleva che rimanesse in una celletta ad ascoltare le confessioni dei penitenti e che questo bello e faticoso ministero fosse il suo sacrificio. Lo disse infinite volte: “Ogni anima che chiederà il mio ministero sarà frattanto il mio Oriente”. Per tutta la vita, momento per momento con ogni diligenza, impegnandosi con voto rinnovato frequentemente, si offrì a Dio per la causa dell’unità della Chiesa; padre Leopoldo considerò questa vocazione come una missione. Nei suoi scritti troviamo queste parole: “Saranno tutta la ragione della mia vita quelle divine parole: “Vi sarà un solo Pastore e un solo ovile””. Un anno prima della morte scriveva ancora: “Tutta la ragione della mia vita deve essere il disegno divino, cioè che anch’io, secondo la mia meschinità, porti qualche cosa affinché un giorno, secondo l’ordine della divina Sapienza, che tutto dispone con fortezza e soavità, gli orientali separati ritornino all’unità cattolica”. Dopo la sua morte, avvenuta il 30 aprile 1942, la fama della sua santità diffusa tra il popolo aumentò: innumerevoli grazie furono attribuite alla sua intercessione. È canonizzato da Giovanni Paolo II il 16 ottobre 1983.
San Vincenzo Eugenio Bossilkov
Vincenzo Eugenio Bossilkov, passionista, nacque a Belene (Bulgaria) il 16 novembre 1900. Ordinato sacerdote passionista nel 1926, poco dopo si laureò al Pontificio Istituto Orientale di Roma: la tesi per il dottorato porta il titolo “L’unione della Bulgaria con la Chiesa romana nella prima metà del secolo XIII”. Nella prefazione Eugenio esprime la viva speranza che il suo studio contribuisca a far risplendere la verità e ricostituire quell’unità per cui Cristo ha pregato e traspare in tutto il volume il suo genuino spirito ecumenico. Tornato in Bulgaria viene mandato come parroco a Bardarscki Gheran, un paese di circa duemila abitanti, e qui rimane fino al 1946. In un contesto politico dove è sempre più martellante la propaganda comunista, Eugenio viene nominato vescovo di Nicopoli e l’ordinazione episcopale avviene il 7 ottobre 1947. La solenne celebrazione è presieduta dal vescovo latino di Plovdiv Ivan Romanov con a fianco altri due vescovi di rito orientale e una delegazione della Chiesa Ortodossa. È una celebrazione in cui domina lo spirito ecumenico che è una delle note salienti del nuovo vescovo: il dialogo con gli ortodossi, infatti, ha sempre occupato un posto di riguardo nel suo ministero. Lo dice lui stesso: “Ben volentieri avrei dimenticato tutto il resto per impegnarmi soltanto in questo apostolato”. Scrive nel 1938: “Mi sto dando molto da fare per la conversione del superiore di un monastero ortodosso. Se ciò riuscirà ringrazierò Dio… È molto importante e dovete pregare per il buon esito”. Visita spesso i monasteri degli ortodossi per capire sempre meglio la loro mentalità e intesse proficue relazioni con gli ortodossi di alcuni importanti centri della Bulgaria. Tuttavia, l’incremento della persecuzione comunista nei confronti della Chiesa Cattolica lo vede costretto a ridurre la sua azione pastorale. Nel 1948 infatti, il governo stabilisce la chiusura di ospedali, asili e stampa cattolica; diversi sacerdoti “sospetti” vengono incarcerati ed espulsi tutti i religiosi stranieri. Mons. Eugenio Bossilkov, che è comunque una delle personalità più illustri della Bulgaria, viene a più riprese interpellato dal regime che gli propone, prima con lusinghe poi con minacce, che si stacchi dalla Chiesa di Roma, dal papa, e si metta a capo di una chiesa nazionale bulgara. Il 16 luglio 1952 viene arrestato con l’accusa di tenere ” corrispondenza estera” e si tenta di accusarlo di crimini mai commessi. “Se vi diranno di mie autoaccuse non ci credete”; ha detto al provinciale. “Resto fedele alla Chiesa e al papa”. Eugenio viene condannato a morte e ucciso in odio alla fede il giorno 11 novembre 1952 a Sofia. Il Giovanni Paolo II lo ha dichiarato martire con la beatificazione del 15 marzo 1998.